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recensione "La pulizia etnica della Palestina"
(troppo vecchio per rispondere)
.sergio.
2008-06-10 12:46:05 UTC
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Segnalo la recensione di "La pulizia etnica della Palestina" di Ilan Pappe
pubblicata su La Stampa a cura dello storico D'Orsi.
In effetti su cosa sia successo in Palestina nel 1948 sul territorio
all'atto della nascita dello Stato di Israele c'e' ancora molto da sapere
e ben vengano quindi libri di storici come l'israeliano Ilan Pappe.

saluti
Sergio


Uscito nei giorni della contestata Fiera del Libro torinese, La pulizia
etnica della Palestina è l'importante saggio di uno storico israeliano
«revisionista», Ilan Pappe, noto anche al pubblico italiano, per alcuni
titoli da noi tradotti, ma anche per aver deciso, nel 2007, di lasciare
Haifa, nella cui università insegnava, dove la vita gli era stata resa
difficile, e di trasferirsi in Inghilterra, nell'ateneo di Exeter.
Il discorso (analisi storica, ma anche perorazione etica) è indirizzato
agli israeliani cui Pappe chiede di affrontare il problema fuori da facili
schemi eroicistici. Ricorrendo a documenti delle Nazioni Unite e di altri
organi sovrannazionali, spiega il significato della «pulizia etnica», e fa
una provocatoria analogia tra la Jugoslavia 1999 e la Palestina 1948. Se
c'è stata pulizia etnica in Kosovo, a maggior ragione vi fu in Palestina.
E fornisce un'impressionante mole di testimonianze, di documenti
diplomatici, di lettere e dispacci: fonti non certo ostili a Israele,
essendo anzi espressione della volontà dei fondatori dello Stato. Dunque
nessuna volontà di «gettare fango» sulla patria, da parte dell'autore, ma,
al contrario, desiderio che essa si mondi da quel «peccato originale»
consistito nell'esser nata, dal punto di vista statuale, sulla morte di un
altro popolo: morte non accidentale, ma procurata da coloro che ne hanno
tratto il beneficio di una terra. E di molto altro ancora. Giacché,
documenta implacabile Pappe, ai palestinesi è stata sottratta non soltanto
una patria, nella sua forma concreta di campi coltivati, o da coltivare;
ma le case, beni materiali, persino i poveri averi che essi cercavano di
portare via con sé, scacciati senza complimenti da un esercito armato fino
ai denti.
Il catalogo dei saccheggi, delle violenze e degli inganni perpetrati ai
danni dei palestinesi è spaventoso. Lo scopo era fare posto ai nuovi
venuti, ai sopravvenienti: trasformare un territorio multietnico,
multireligioso e multilingue in un'enclave di «purezza» ebraica. La forza
di Ben Gurion e della leadership ebraica fa pendant con l'inettitudine di
quella palestinese, con la viltà delle classi dirigenti arabe, con
l'impreparazione dell'Onu, che commise tutta una serie di errori che
avallarono la politica dello stato di fatto, portata avanti dai leader
israeliani, i quali con grande lungimiranza badarono soprattutto e prima
di tutto a costruire un esercito formidabile che già nel 1948 non aveva
pari nella regione.
L'azione militare «punì» quelle famiglie che non intendevano farsi
sradicare, quei contadini che erano pronti a rischiare la vita pur di non
abbandonare terre, animali, e quei meravigliosi impianti di irrigazione su
cui con mano rapsodica si sofferma l'autore, raccontando i tanti episodi
di distruzione, che nel corso perlopiù di pochi mesi hanno radicalmente
cambiato il panorama di questa terra gentile, con la scomparsa di edifici
artistici, spesso luoghi di culto (non solo islamici: in Palestina
coesistevano, con gli islamici, sunniti, ma anche sciiti, cristiani di
varie confessioni - cattolici, ortodossi, copti-- - ebrei, e drusi).
Infatti, non basta creare uno Stato; è necessaria dargli una «storia». Si
trattava di dimostrare che quella terra era ebrea da sempre, e che il
passaggio dei palestinesi era stato un fatto accidentale e temporaneo,
occorreva inventare appunto una tradizione, distruggendone un'altra.
Il «memoricidio» è la colpa principale che Pappe imputa agli Ebrei ai
danni dei Palestinesi. Una tesi forte che appare un coraggioso j'accuse
verso i vincitori e un gesto generoso verso gli sconfitti. La fondazione
di Israele è stata la nakba dei palestinesi, la «catastrofe» da cui non si
sono mai ripresi. Che lo dica e lo documenti un ebreo israeliano ci deve
indurre a riflettere e a guardare con occhi più limpidi la tragedia
mediorientale.

Testata: La Stampa
Data: 07 giugno 2008
Pagina: 9
Autore: Angelo D'Orsi
Titolo: «Palestina uguale Kossovo»
--
questo articolo e` stato inviato via web dal servizio gratuito
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Maurizio Pistone
2008-06-10 18:53:52 UTC
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Post by .sergio.
La fondazione
di Israele è stata la nakba dei palestinesi, la «catastrofe» da cui non si
sono mai ripresi.
ecco: questo è il problema.

Come mai non si sono mai ripresi?

Per non andare più indietro nel tempo, verso la metà del secolo
epurazioni e deportazioni sono avvenute in moltissime parti del mondo,
spesso coinvolgendo territori e popolazioni di dimensioni enormemente
superiori. Basti pensare allo scambio di popolazione tra India e
Pakstan, avvenuto tra violenze di ogni genere. All'espulsione di milioni
di Tedeschi dalla Prussia Orientale e da altri territori dell'Est. In
tempi più recenti, la divisione di Cipro ha comportato distruzioni
minori quanto alla scala geografica e demica, ma violenze non certo più
lievi. Per tornare indietro di pochi anni, l'espulsione dei Turchi dalla
Tracia, e dei Greci dalla maggior parte delle città turche, ha avuto
caratteri di ferocia che ingiustamente dalle nostre parti si ignora.

Eppure, in tutte quelle diverse parti del mondo, in qualche modo si è
riusciti, dopo decenni, a superare il trauma. India e Pakistan si
fronteggiano con armi nucleari per la questione del Kashmir, non certo
nell'invocazione di un impossibile "diritto al ritorno". In nessuna
parte del mondo una massa di profughi è stata lasciata per due
generazioni in campi fetidi, con l'unica promessa di tornare a casa con
le armi in pugno. In nessuna parte del mondo, nessuno si sogna di
sportare decine di milioni di persone per farli "tornare" alle case dei
loro nonni. Nessuno si sogna di ridisegnare con una guerra totale i
confini di decine di stati - confini che da sempre, in qualunque parte
del mondo, sono "sbagliati": perché dovunque si tracci un confine, ci
sarà sempre qualcuno che si trova dalla "parte sbagliata".

Il giorno in cui i Palestinesi si convinceranno che l'unico modo per
tornare in Palestina, è fare la pace con Iraele, sarà un gran giorno.
Per tornarci come turisti, naturalmente: come i fiumani e i dalmati che
vanno tranquillamente a passare le vacanze in Istria e Dalmazia, non a
mettere bombe nei bar e nelle stazioni degli autobus.
--
Maurizio Pistone strenua nos exercet inertia Hor.
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http://blog.ilpugnonellocchio.it
.sergio.
2008-06-11 11:00:43 UTC
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Post by Maurizio Pistone
Post by .sergio.
La fondazione
di Israele è stata la nakba dei palestinesi, la «catastrofe» da cui non si
sono mai ripresi.
ecco: questo è il problema.
Come mai non si sono mai ripresi?
Per non andare più indietro nel tempo, verso la metà del secolo
epurazioni e deportazioni sono avvenute in moltissime parti del mondo,
ma perche' tiri in ballo altre epurazioni e deportazioni quando qui nel
thread si parla di quelle avvenute ai danni dei palestinesi e di cui non
e' stato semplice perfino per uno storico israeliano come Pappe parlarne,
tanto e' che è dovuto andar via da Israele per come veniva minacciato?

Fra l'altro gli esempi che fai sono sballati. O i Palestinesi sono
responsabili della Shoah o di un regime come il III Reich?
Post by Maurizio Pistone
Il giorno in cui i Palestinesi si convinceranno che l'unico modo per
tornare in Palestina, è fare la pace con Iraele, sarà un gran giorno.
sempre che Israele abbia davvero questa volontà. Finora non mi pare visto
che in questi anni continuava ad espropriare territorio che non le
appartiene e che non e' riconosciuto essere di Israele dalla comunità
internazionale.
Post by Maurizio Pistone
Per tornarci come turisti, naturalmente: come i fiumani e i dalmati che
vanno tranquillamente a passare le vacanze in Istria e Dalmazia, non a
mettere bombe nei bar e nelle stazioni degli autobus.
ma certo, le colpe - secondo la tua visione - sono tutte e solo da una
parte. <g>
--
questo articolo e` stato inviato via web dal servizio gratuito
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m.m.
2008-06-11 14:23:12 UTC
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Post by .sergio.
Post by Maurizio Pistone
ecco: questo è il problema.
Come mai non si sono mai ripresi?
ma perche' tiri in ballo altre epurazioni e deportazioni quando qui
Sono daccordo, in genere se si parla di un problema bisogna limitarsi a quel
problema. Immagino che Maurizio Pistone abbia cercato un ampliamento di
prospettiva a scopo comparativo (e a dirla tutta mi sembra un sistema
euristico assai valido) ma quando si compara il dolore la cosa non è mai
semplice. Queindi restiamo alla sola questione palestinese. Ora: nel '48,
subito dopo la fondazione dello Stato e l'aggressione, Israele espulse dai
territori grupi di palestinesi. Sul piano morale non fa differenza se uno o
un milione tuttavia sul piano politico si: quanti palestinesi? Non abbiamo
cifre chiare: da una decina di migliaia a poco più di centomila. Il motivo
di queste esplulsioni è chiaro: la sicurezza. Ora, naturalmente, il problema
non è chi ha ragione. Il problema è perché questa situazione non si è
chiusa.
I gruppi di esuli non sono mai stati guardati con simpatia dai paesi arabi
che si sono sempre guardati bene dal cercare di integrarli. Hanno invece
favorito il formarsi di gruppi armati da gettare avanti contro Israele.
Questo sino agli anni '60: i palestinesi erano un problema per gli Stati
arabi ma le bande armate palestinesi erano un utile strumento. La crisi del
'67 ha aperto nuovi scenari: i gruppi armati hano guadagnato autonomia e
sono diventati, con l'utilizzo del terrorismo, più o meno indipendenti
politicamente dagli Stati. Il terrorismo era l'arma storica della bande
palestinesi che attaccavano i kibbuz e quindi non c'è voluto molto a
spostarlo su obiettivi più paganti politicamente e soprattutto sul piano
dell'opinione pubblica araba. Così si è formata una dirigenza palestinese
che ha via via rafforzato la sua posizione. Chiaramente non occorre essere
dei geni disociolgia per comprendere che questa dirigenza aveva tutto
l'interesse a far permanere lo stato di ostilità con Israele. Le masse
palestinesi non avevano altra scelta che accettare questa dirigenza,
piacesse o meno. Diverso invece il ruolo degli altri Stati arabi, costretti
a sostenere queste dirigenze (di fatto almeno 3-4 con una principale ed
altre in collaborazione-competizione) e insieme timorosi delle loro scelte
"irrazionali". Quando, con la crisi del nasserismo, e poi la svolta politica
dopo la guerra del Kippur, l'unica hanno iniziato a rpevalere le forme di
identificazione politica religiose la situaizone si è ulteriormente
complicata: Iran, Arabia Saudita, Irak, Siria... tutti hanno cominciato a
dover rinegoziare il loro ruolo utilizzando i Palestinesi per i loro scopi.
Le rapide concessioni israeliane avrebbero potuto far giungere ad un accordo
in breve (accordo che è, ovviamente, nell'interesse tanto dei Palestinesi
che di Israele), considerando anche il panorama internazionale ma le
esigenze di influenza degli Stati arabi non erano le stesse dei Palestinesi.
Qeusto son tornati ad essere oggetto di politica più che soggetto. Le
dirigenze hanno cominciato a lottarsi apertamente, sino agli esiti recenti,
lasciando sfuggire, una dopo l'altra, le varie occasioni di trattativa. Un
po' per le logiche interne di potere (vittime del loro radicalismo retorico)
un po' per le influenze degli Stati arabi.
Così paradossalmente la questione palestinese muove barche di soldi (spesi
dai pari potentati per tener viva la crisi anziché risolverla) e il tenore
di vita dei palestine nei territori lasciati loro da Israele peggiora
costantemente.
Le dirigenze palestinesi hanno perso un mucchio di occasioni favorevoli per
giungere ad un accordo. Uno dei motivi è che, semplicemnte, queste dirigenze
non hanno obiettivi strategici. Non sanno cosa chiedere, quale situazione
obiettiva possa essere la loro meta. D'altra parte sino a che ricevono
finanziamenti per pensarla così e trasferire gli obiettivi politici nella
mitologia millenaristica sarà difficile che possano venirne fuori. E in
realtà, al momento, il vero problema non sono i palestinesi ma le linee,
confuse, degli Stati arabi dell'area, tutti in competizione tra loro e con i
gruppi fondametnalisti.
La cosa interessante è che nell'area esiste una cultura comune, risorse
economiche notevoli, livelli di competenze culturalil e tecnologiche
altissime: potrebbero costituire un polo di aggregazione e di potenza
mondiale. E invece litigano per qualche km di terra arida.
Valutato con egoismo c'è quasi da sperare che continuino a farlo a lungo.
m
Michele
2008-06-11 16:31:40 UTC
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Post by m.m.
Post by .sergio.
Post by Maurizio Pistone
ecco: questo è il problema.
Come mai non si sono mai ripresi?
ma perche' tiri in ballo altre epurazioni e deportazioni quando qui
Sono daccordo, in genere se si parla di un problema bisogna limitarsi a quel
problema. Immagino che Maurizio Pistone abbia cercato un ampliamento di
prospettiva a scopo comparativo (e a dirla tutta mi sembra un sistema
euristico assai valido)
Concordo con la tua ipotesi. Il confronto con eventi simili in questo caso è
addirittura illuminante, evidenziando una scelta precisa fatta da parte di
numerosi stati arabi.
.sergio.
2008-06-18 11:53:45 UTC
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Post by m.m.
Queindi restiamo alla sola questione palestinese. Ora: nel '48,
subito dopo la fondazione dello Stato e l'aggressione, Israele espulse dai
territori grupi di palestinesi.
siamo certi che la pulizia etnica inizio' dopo?

Aggiungo alla discussione l'interessante articolo apparso su Le Monde
Diplomatique scritto dall'ex ambasciatore francese Eric Rouleau .


Israele affronta la sua storia
di Eric Rouleau *

Negli anni '80, è iniziata, nell'intellighenzia israeliana, una profonda
mutazione, legata all'arrivo di una nuova generazione di uomini e donne
che non hanno conosciuto la Shoah né la creazione dello stato d'Israele.
Un'evoluzione che testimonia anche della progressiva maturazione di élite
ormai capaci di giudicare senza complessi il passato e di liberarsi da
miti e tabù trasmessi dai dirigenti israeliani.
L'anticonformismo di questi intellettuali - storici, sociologi, filosofi,
scrittori, giornalisti, cineasti, artisti - fa la sua comparsa nel periodo
successivo alla guerra dei sei giorni, nel 1967; ad alimentare la
contestazione sono l'occupazione, la resistenza palestinese, l'ascesa al
potere della destra nazionalista e religiosa nel 1977, la crescente
influenza di coloni e rabbini espansionisti, nonché l'esacerbarsi delle
tensioni tra clericali e laici. «Quando parlano di Tel Aviv, i religiosi
dicono spesso Sodoma e Gomorra, mentre, per i laici, Gerusalemme, è la
Tehran degli ayatollah», osserva Michel Warschawski, uno dei dirigenti
dell'ala radicale del movimento pacifista.
La pace con l'Egitto, nel 1979, suscita la speranza di un ordine globale,
che l'invasione del Libano delude nel 1982. Quest'ultima, vissuta
dall'opinione pubblica come la prima guerra offensiva di Israele, è stata
scatenata per ragioni rivelatesi false. Contrariamente a quanto sostenuto
dal governo israeliano, l'Organizzazione per la liberazione della
Palestina (Olp), che il tandem Menahem Begin - Ariel Sharon cercava di
annientare, non aveva messo in atto alcuna provocazione. Al contrario,
mostrava già di volersi impegnare sulla via del compromesso. E comunque,
non metteva in pericolo l'esistenza dello stato ebraico. All'epoca, molti
israeliani si sono scandalizzati per l'estrema brutalità del loro
esercito, per il numero esorbitante di vittime tra i civili palestinesi e
libanesi, fino ad arrivare allo spaventoso massacro di Sabra e Chatila,
compiuto alla luce del sole dalle unità di Tsahal.
Avvengono allora fatti senza precedenti: ben quattrocentomila persone
manifestano al centro di Tel Aviv; cinquecento ufficiali e soldati
disertano; il movimento dei refuznik dà voce a coloro che rifiutano di
servire nell'esercito, prima in Libano, poi nei territori occupati.
La «purezza delle armi», vanto dello stato ebraico fin dalla sua nascita,
è seriamente compromessa.
Alcuni giovani storici contribuiscono, più o meno consapevolmente, a
gettare discredito sullo slogan. Prendendo visione degli archivi
ufficiali, ampiamente messi a disposizione nel 1978 - trent'anni dopo lo
svolgimento dei fatti in oggetto, come vuole la legge israeliana - ,
scoprono che il comportamento delle forze armate israeliane, prima e
durante la guerra del 1948, non corrisponde minimamente all'immagine
idilliaca diffusa dalla propaganda. Il primo che, basandosi su documenti
ufficiali, pubblica un libro che elenca i «sette miti principali»
utilizzati per decenni per ingannare l'opinione pubblica (1), è Simha
Flapan, uno dei dirigenti del partito di sinistra Mapam e fervente
sionista fino alla sua morte.
Esporre e analizzare le conclusioni di coloro che vengono comunemente
indicati come i «nuovi storici» (2) è l'obiettivo del libro di Dominique
Vidal (in collaborazione con Sébastien Boussois). Si tratta di ricercatori
che, per la prima volta dalla creazione dello stato d'Israele, fondano i
loro lavori non su informazioni di seconda mano, come i loro predecessori,
ma su documenti incontestabili presi negli archivi del consiglio dei
ministri, dell'esercito, del Palmach (truppe d'assalto), delle
organizzazioni sioniste e dai diari del primo ministro e ministro della
difesa David Ben Gurion, tra gli altri. Il libro descrive così le
circostanze che conducono alla guerra contro gli eserciti arabi,
stigmatizza il ruolo, quanto meno ambiguo, di Ben Gurion, poi dedica un
capitolo a Benny Morris, il capofila dei «nuovi storici», che definisce
«schizofrenico» a causa del divario tra il suo impegno, in quanto storico
alla ricerca della verità, e le sue posizioni politiche vicine all'estrema
destra israeliana.
Analizza infine l'ultimissima opera di Ilan Pappé, Le Nettoyage ethnique
de la Palestine, che provocò un tale scandalo - dopo tanti altri - che il
suo autore dovette dare le dimissioni dall'università di Haifa e andare in
esilio presso un'università britannica.
«Rendere la Palestina ebrea, quanto l'America è americana e l'Inghilterra
è inglese» Pappé non è il primo intellettuale dissidente, e sicuramente
non sarà l'ultimo, a espatriare per sfuggire, scrive, all'ambiente
soffocante che circonda gli «appestati» come lui. Eppure, è molto
difficile contestare le sue ricostruzioni, molto più dettagliate di quelle
dei suoi predecessori. Lo storico di Haifa, infatti, ha avuto accesso a
nuovi documenti, tratti dagli ultimi sessant'anni degli archivi israeliani
(e non dagli ultimi quaranta, come, per lo più, i suoi predecessori). Ma
si è anche basato sugli scritti di storici palestinesi, spesso testimoni
oculari degli avvenimenti. E ha raccolto le testimonianze dei
sopravvissuti alla pulizia etnica, fino ad allora stranamente trascurati
dai suoi colleghi o per aprioristico rifiuto delle testimonianze, o per
diffidenza, o ancor più banalmente, per ignoranza della lingua araba -
testimonianze tanto più preziose, in quanto gli stati arabi a tutt'oggi
rifiutano di aprire gli archivi ai ricercatori.
Le divergenze tra Pappé e Morris non sono, in ultima analisi, veramente
fondamentali. L'uno e l'altro confermano prima di tutto che la guerra del
1948 non è stata, come si è preteso, un combattimento tra «David e Golia»,
perché le forze israeliane erano nettamente superiori, per effettivi e
armamenti, ai loro avversari. Nel pieno della guerra civile
israelo-palestinese, si contarono solo alcune migliaia di combattenti
palestinesi, mal equipaggiati e spalleggiati dai volontari arabi
dell'Esercito di liberazione condotto da Fawzi Al Qawuqji.
E, anche quando, il 15 maggio 1948, entrarono in campo gli stati arabi, i
loro contingenti erano di molto inferiori a quelli della Hagana, che
peraltro in seguito continuò a rafforzarsi. Inoltre, i due storici
concordano, gli eserciti arabi hanno invaso la Palestina in extremis (e
alcuni a malincuore), non per «distruggere il giovane stato ebraico», cosa
di cui si sapevano incapaci, ma per impedire che Israele e la
Transgiordania - in «combutta», secondo lo storico Avi Shlaim -
suddividessero tra loro il territorio destinato ai palestinesi dal piano
di spartizione dell'Onu del 29 novembre 1947. «Siamo in grado di occupare
tutta la Palestina, ne sono certo», scriveva Ben Gurion a Moshe Sharett
già nel febbraio 1948, ossia tre mesi prima della guerra israelo-araba e
poche settimane prima della consegna di un massiccio quantitativo di
armamenti inviati, via Praga, dall'Unione sovietica. Il che non gli impedì
di continuare a proclamare che Israele era minacciata da un «secondo
Olocausto».
Travolto dall'euforia per le vittorie riportate, riferisce Pappé, il
«padre» dello stato ebraico, già nella prima settimana di guerra (il 24
maggio), scriveva nel suo diario personale: «Costituiremo uno stato
cristiano in Libano (...). Distruggeremo la Transgiordania, bombarderemo
la sua capitale, annienteremo il suo esercito (...).
Metteremo in ginocchio la Siria (...). La nostra aviazione attaccherà Port
Said, Alessandria e il Cairo, e così vendicheremo i nostri antenati
oppressi, all'epoca biblica, dagli egiziani e dagli assiri... » Morris e
Pappé sfatano anche la leggenda, accuratamente coltivata dai dirigenti
israeliani, secondo cui i palestinesi avrebbero lasciato volontariamente
le loro case, in seguito agli appelli lanciati dalle autorità e dalle
radio arabe (trasmissioni inventate di sana pianta dalla propaganda
israeliana, come dimostrano le registrazioni integrali realizzate dalla
British Broadcasting Corporation [Bbc]). Al contrario, i due storici
confermano quel che già si sapeva dalla fine degli anni '50: sono state le
stesse autorità israeliane a costringere i palestinesi all'esodo,
ricorrendo ai ricatti, alle minacce, al terrore e alla brutalità delle
armi per cacciarli dalle loro terre.
Divergono, invece, sul senso di queste espulsioni: per Morris, sono solo
«danni collaterali»; «la guerra è guerra», spiega, aggiungendo, più
recentemente (3) e non senza cinismo, che Ben Gurion avrebbe dovuto
espellere fino all'ultimo palestinese. Laddove Morris descrive un esodo
«nato dalla guerra, e non dalla volontà israeliana o araba», Pappé
dimostra che la pulizia etnica è stata pianificata, organizzata e messa in
atto per estendere il territorio dello stato d'Israele e «ebraicizzarlo».
A ragion veduta. Perché, sebbene i dirigenti sionisti avessero
pubblicamente approvato il piano di spartizione proposto dalle Nazioni
unite, in realtà lo ritenevano inaccettabile: la loro era un'approvazione
di tipo tattico, come dimostrano sia numerosi documenti d'archivio che il
diario di Ben Gurion.
Certo, a loro era stata attribuita più della metà della Palestina, mentre
il resto spettava agli arabi autoctoni, sebbene fossero due volte più
numerosi degli ebrei. Tuttavia - ed era questo il problema - , il
territorio previsto per lo stato d'Israele sembrava loro troppo piccolo,
per i milioni d'immigrati che i dirigenti speravano di accogliere; per di
più, quattrocentocinquemila arabi palestinesi vi avrebbero convissuto con
cinquecentocinquantottomila ebrei, il che voleva dire che questi ultimi
avrebbero costituito solo il 58% della popolazione del futuro stato
ebraico. Il sionismo rischiava così di perdere totalmente la sua ragione
d'essere: «Rendere la Palestina ebrea, quanto l'America è americana e
l'Inghilterra è inglese», secondo la formula di Haim Weizmann, futuro
primo presidente d'Israele.
Ecco perché il «trasferimento» (eufemismo che sta per espulsione) degli
arabi autoctoni fuori dalle frontiere era il pensiero fisso dei dirigenti
sionisti, che ne dibattevano continuamente, di preferenza a porte chiuse.
Fin dalla fine del XIX secolo, Theodor Herzl aveva suggerito al sultano
ottomano di deportare i palestinesi per fare spazio alla colonizzazione
ebrea. Nel 1930, Weizmann rifece la stessa proposta al governo britannico,
la potenza mandataria della Palestina.
Nel 1938, dopo la proposta di un mini-stato ebraico, accompagnata dal
trasferimento degli arabi prevista dalla commissione britannica diretta da
lord Peel, Ben Gurion dichiara davanti al comitato esecutivo dell'Agenzia
ebraica: «Sono favorevole a un trasferimento obbligatorio, una misura che
non ha niente d'immorale». La guerra del 1948 doveva offrirgli l'occasione
sognata per mettere in atto il suo progetto, lanciando contro la
popolazione autoctona, sei mesi prima dell'intervento degli eserciti
arabi, l'offensiva destinata a sradicarla. Per fare questo, rivela Pappé,
si serviva di un archivio relativo a tutti i villaggi arabi, con
informazioni demografiche ed economiche, ma anche politiche e militari,
uno schedario messo in piedi dall'Agenzia ebrea a partire dal 1939 e
costantemente aggiornato durante gli anni '40.
I mezzi ai quali le forze israeliane hanno fatto ricorso - che Pappé
analizza nel dettaglio - fanno venire i brividi, anche se non sono diverse
dalle atrocità commesse nel corso di epurazioni etniche condotte da altri
popoli fin dalla più remota antichità. Il bilancio effettuato dallo
storico è eloquente: in pochi mesi, sono state recensite diverse decine di
massacri e di esecuzioni sommarie; cinquecentotrentuno villaggi (su un
migliaio), distrutti o riconvertiti per accogliere immigrati ebrei; undici
centri urbani, etnicamente misti, svuotati dei loro abitanti arabi...
Ed infatti è sulla punta delle baionette che tutti i palestinesi di Ramleh
e di Lydda, settantamila persone, bambini e vecchi compresi, sono cacciati
in poche ore, a metà luglio del 1948, su istruzioni di Ben Gurion. Ne
fanno fede le Memorie (ulteriormente censurate) del futuro primo ministro
Itzhak Rabin, all'epoca ufficiale superiore, incaricato, con Yigal Allon,
dell'operazione. Ricacciati verso la frontiera della Transgiordania, molti
di loro muoiono di sfinimento per strada. Lo stesso era avvenuto, in
aprile, a Jaffa, dove cinquantamila abitanti arabi avevano dovuto fuggire,
terrorizzati dal cannoneggiamento dell'artiglieria dell'Irgun e dalla
paura di nuovi massacri. È quel che lo stesso Morris chiama il «fattore
atrocità».
Servire la causa della pace, ristabilendo la verità sull'ingiustizia
commessa nel 1948 Questi orrori sono tanto più ingiustificati, in quanto
molti villaggi arabi, a detta di Ben Gurion, avevano proclamato la loro
volontà di non opporsi alla suddivisione della Palestina e alcuni avevano
anche concluso in questo senso accordi di non-belligeranza con i loro
vicini ebrei. Come nel caso di Deir Yassin, dove, nonostante tutto, le
forze irregolari dell'Irgun e del Lehi («banda Stern») massacrarono una
gran parte della popolazione - con, secondo Flapan, il tacito accordo
dell'esercito «regolare» dell'Agenzia ebraica, l'Hagana.
Complessivamente, tra settecentocinquantamila e ottocentomila palestinesi
dovettero prendere la strada dell'esilio dal 1947 al 1949, mentre i loro
beni mobili e immobiliari venivano confiscati. Secondo la stima di un
ufficiale israeliano citato da Vidal, il Fondo nazionale ebreo s'impadronì
di trecentomila ettari di terre arabe, di cui dette l'essenziale ai
kibbutz. L'operazione non poteva essere meglio concepita: all'indomani del
voto dell'Assemblea generale delle Nazioni unite, l'11 dicembre 1948,
sulla famosa risoluzione del «diritto al ritorno», il governo israeliano
adotta la legge d'urgenza relativa alle proprietà degli assenti che,
completando quella del 30 giugno 1948 sulla coltura delle terre
abbandonate, legalizza retroattivamente la spoliazione e proibisce ai
derubati di rivendicare una qualsiasi compensazione e di tornare alle loro
case.
Nonostante le proteste di alcuni membri del governo israeliano,
scandalizzati dalla brutalità della pulizia etnica, Ben Gurion - che non
l'aveva esplicitamente ordinata per iscritto - non fa niente per
interromperla o condannarla. Si limita a denunciare i saccheggi e gli
stupri ai quali si abbandonavano alcuni soldati di Tsahal, i quali
beneficiarono tuttavia di una totale impunità. Ma la cosa forse più
sorprendente, è il pesante silenzio della «comunità internazionale» per
diversi decenni, quando gli osservatori stranieri, compresi quelli
dell'Onu, non potevano certo ignorare le atrocità commesse. Si capisce
meglio, allora, perché i palestinesi commemorano la Nakba («catastrofe»),
e non la «guerra d'indipendenza d'Israele», che il recente Salone del
libro parigino ha scelto di celebrare.
Ricollegandosi agli storici della guerra del 1948, Avi Shlaïm, professore
di lunga data al St Antony's College di Oxford, ha appena pubblicato Le
Mur de fer. Israël et le monde arabe. Vi distrugge un altro mito: quello
di uno stato d'Israele amante della pace, che si scontra con il bellicismo
degli stati arabi decisi a distruggerlo. Il titolo del libro è tratto
dalla dottrina di Zeev Jabotinsky: fin dal 1923, questo padre della destra
ultranazionalista sosteneva che bisognasse rinunciare a trattare un
accordo di pace prima di aver colonizzato la Palestina al riparo di un
«muro di ferro», perché gli arabi avrebbero capito solo la logica della
forza. Avendo adottato questa dottrina nella pratica, uomini politici e
militari israeliani, di sinistra come di destra, avrebbero in generale
sabotato i successivi progetti di pace. Ritenendo che il tempo gioca a
favore di Israele, con la pretesa che quest'ultimo non abbia «partner per
la pace» (dixit Ehoud Barak), i dirigenti di Gerusalemme aspettano sempre
che la parte avversa si rassegni ad accettare l'espansione territoriale
dello stato ebraico, il frazionamento e la demilitarizzazione di un
ipotetico stato palestinese, condannato a diventare un mosaico di
bantustan satellizzati. Il libro di Shlaim, la cui edizione inglese nel
2000 è stata un successo (più di cinquantamila copie vendute), è stato
tradotto in molte lingue prima di essere stampato in ebraico cinque anni
più tardi: la quasi totalità degli editori israeliani l'aveva fin lì
considerato «privo di interesse». Comunque, Shlaim ammette di «riconoscere
la legittimità del movimento sionista e quella dello stato d'Israele nelle
frontiere del 1967».
Precisa tuttavia: «In compenso, rifiuto totalmente il progetto coloniale
sionista oltre questa frontiera». Con alcune eccezioni, storici,
sociologi, scrittori, giornalisti e cineasti che appartengono alla nuova
ondata dell'intellighenzia sono, come lui, sionisti di un genere nuovo,
soprannominati i «postsionisti». Tutti sono convinti di servire la causa
della pace ristabilendo la verità storica e riconoscendo i torti inflitti
ai palestinesi.
Per capire il senso e la portata di questa mutazione iniziata negli anni
'80, è interessante leggere l'inchiesta condotta da Boussois in Israele,
sia tra i «nuovi storici» che tra i loro avversari (4).
Alcuni ne concluderanno che la realizzazione di uno stato d'Israele
«normalizzato», in pace con i suoi vicini, dipenderà in gran parte
dall'impatto che avranno questi intellettuali contestatari sulla società,
e soprattutto sul mondo politico israeliano. È quello che scrive, a suo
modo, Yehuda Lancry, ex ambasciatore d'Israele in Francia e negli Stati
uniti: «i "nuovi storici", anche attraverso il radicalismo di Ilan Pappé,
sono altrettanti esploratori della parte oscura della coscienza collettiva
israeliana, sono coloro che preparano una più convinta adesione al mutuo
riconoscimento e alla pace con i palestinesi. Il loro lavoro, lungi dal
rappresentare una fonte di problemi per Israele, fa onore al loro paese -
e, ancora di più: è un dovere, un obbligo morale, una prodigiosa presa in
carico di un'impresa liberatoria capace d'iscrivere nel vissuto israeliano
le linee di rottura, gli interstizi salutari, necessari all'inserimento
del discorso dell'Altro (5)».



note:
* Giornalista, ex ambasciatore di Francia.

(1) The Birth of Israel: Myths and Realities, Pantheon Books, New York,
1987. Purtroppo, quest'opera pionieristica non è stata tradotta in
francese.
(2) Comment Israël expulsa les Palestiniens costituisce un'edizione
attualizzata e ampliata dell'opera Le Péché originel d'Israël, pubblicato
dallo stesso autore in collaborazione con Josef Algazy (L'Atelier, 1998).

(3) In un'intervista al quotidiano Haaretz, Tel Aviv, l'8 gennaio 2004.

(4) In Comment Israël..., op. cit. Boussois è peraltro l'autore di Israël
confronté à son passé, L'Harmattan, Parigi, 2008.

(5) Prefazione a Comment Israël..., op. cit.
(Traduzione di G. P.) AVRAHAM BURG Vaincre Hitler. Pour un judaïsme plus
humaniste et universaliste (Fayard, Parigi, 2008, 359 pagine, 23 euro)
ILAN PAPPÉ Le Nettoyage ethnique de la Palestine (Fayard, Parigi, 2008,
394 pagine, 22 euro) in it.: La pulizia etnica in Palestina (Fazi, 2008,
19 euro) AVI SHLAìM Le Mur de fer. Israël et le monde arabe
(Buchet-Chastel, Parigi, 2008, 759 pagine, 29 euro) in it.: Il muro di
ferro. Israele e il mondo arabo (Il Ponte Editrice, 2003, 29 euro)
DOMINIQUE VIDAL Comment Israël espulsa les Palestiniens (1947-1949)
(L'Atelier, Ivry-sur-Seine, 2007, 256 pagine, 21 euro)

Da Le Monde Diplomatique di maggio 2008
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m.m.
2008-06-24 10:23:01 UTC
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Post by .sergio.
siamo certi che la pulizia etnica inizio' dopo?
Aggiungo alla discussione l'interessante articolo apparso su Le Monde
Diplomatique scritto dall'ex ambasciatore francese Eric Rouleau .
non mi sembra porti particolari novità. Poiché non si tratta di stabilire
chi sono i buoni e chi i cattivi, e poiché darei per scontato che in guerra
ci si ammazza, mi sembra scontato che i generali abbiano e manifestino, a
guerra iniziata, tutte le idee opportune per chiudere la guerra con una
vittoria la più definitiva possibile. Le opinioni di un generale, e anche di
un politico, possono avere un rilievo per la biografia del soggetto in
questione ma per la grande storia restano i fatti ad esser decisivi. I fatti
sono che nonostante una serie impressionante di vittorie sul piano militare
Israele non ha mai cancellato la Siria o l'Egitto o la Giordania. Nel '48
gli Stati arabi dichiararono una guerra preventiva. Ora, forse non la
volevano (ma si può fare una guerra contro voglia?) ma resta che i loro
soldati andarono per vincere; forse non potevano vincere (come infatti è
stato) e in questo caso le dirigenze andrebbero giudicate per la loro
incapacità; forse qualche israeleiano avrebbe voluto conquistare il mondo e
non accontentarsi dei territori assegnati; forse... tutti i forse del mondo
ma i fatti sono stati una serie di offensive militari iniziate dagli arabi.
Il risultato di queste offensive è stata una vittoria israeliana. Se
consideriamo il contesto delle battaglie mi sembra comprensibile (non
giusto! ma non sto facendo questione di chi sia giusto o di chi sia in
colpa) che vi sia stato uno spostamento di popolazione. Un maggiore
spostamento lo si era da poco realizzato in Europa e praticamente, sul piano
culturale almeno, tutti gli israeliani erano degli immigrati: questo per
dire che all'epoca non si trattava di un gesto scandaloso come appare oggi a
noi, raffinati ecologisti. Comunque, poiché anche queste sono illazioni di
carattere culturale, resta che le prime esplusioni sono state nel '48.
Sul piano politico piuttosto di stare a distribuire colpe o responsabilità
(che semmai andrebbero date a chi ha iniziato la guerra) mi porrei il
problema: quanti erano davvero questi esplulsi? Perché nessuno ha mai
pensato di integrarli? Perché nessuno ha mai pensato di risolvere il
problema? Perché tonnellate di denaro sono investite per _evitare_ che il
problema sia risolto?
La mia impressione è che l'evento dell'espulsiano sia stato "inventato",
come evento fondante sul piano morale (e non come fatto storico: è chiaro
che le esplusioni ci sono state), in tempi abbastanza recenti: costutuisce
una forma di neo-tradizionalismo utilizzato e promosso da gruppi egemonici
in competizione. IL fatto che i palestinesi siano un popolo che soffre non
cancella la necessità di applicare analisi di classe alla situazione. La mia
impressione (e due: ripeto, sono impressioni, non ho la verità in tasca) è
che siano davvero in pochi ad avere interesse a risolvere defintivamente la
questione palestinese (e paradossalmente i più interessati, insieme a molti
palestinesi, sarebbero proprio gli israeliani); la mia impressione è che la
realizzazione di ulteriori insediamenti colonici (errore politico notevole
dovuto, peraltro, più a esigenze di consenso interno che a scelte politiche
definitive o strategiche) sia soltanto la foglia di fico per coprire altri
grossi motivi: gli insediamenti (un errore, lo ripeto) non sono affatto il
principale impedimento alla soluzione della crisi e, per dirla tutta, ho
idea che non siano affatto un impedimento, nel non sul piano psicologico e
propagandistico.
Bisognerebbe avere il coraggio di stabilire: quale è il reale (in tutti i
sensi: di vero e realistico) interesse dei palestinesi? Non mi risulta che
nessuno abbia considerato al questione.
m.
.sergio.
2008-06-30 10:31:22 UTC
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Post by m.m.
La mia
impressione (e due: ripeto, sono impressioni, non ho la verità in tasca) è
che siano davvero in pochi ad avere interesse a risolvere defintivamente la
questione palestinese (e paradossalmente i più interessati, insieme a molti
palestinesi, sarebbero proprio gli israeliani)
non ho questa tua paradossale impressione, specie quando ho letto e
tuttora leggo di continue espansioni delle colonie israeliane nei
Territori Occupati.
Post by m.m.
gli insediamenti (un errore, lo ripeto) non sono affatto il
principale impedimento alla soluzione della crisi
se non IL principale è sicuro tra I principali motivi pero'.

sergio
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Maurizio Pistone
2008-06-11 21:47:29 UTC
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Post by .sergio.
Fra l'altro gli esempi che fai sono sballati. O i Palestinesi sono
responsabili della Shoah o di un regime come il III Reich?
se dal mio intervento si ricava una cosa del genere, vuol dire che sono
diventato assolutamente incapace di farmi capire.

Io non ho assolutamente parlato di colpe. Ho detto una cosa
completamente diversa.

Fino a sessant'anni fa era comunemente accettato nel mondo che fare una
guerra per spostare un confine o una popolazione fosse pienamente
legittimo. La Germania occupa l'Alsazia Lorena? La Francia fa la guerra
alla Germania per riprendersela. La Francia occupa l'Alsazia Lorena? La
Germania fa la guerra alla Francia per riprendersela. In Texas sta
aumentando la popolazione anglosassone? Gli Stati Uniti fanno la guerra
al Messico per prendersi il Texas. Inglsei, Boeri, Zulu sono interessati
alle stesse regioni del Sud Africa? Inglesi, Boeri e Zulu si massacrano
per vedere chi è più forte. Tutto lecito, tutto regolare. È lo ius
gentium.

Dopo la II Guerra Mondiale e i grandi traumi del dopoguerra, la gente ha
cominciato a pensare che questo modo di comportarsi sia da pazzi. Meglio
lasciare le cose come stanno - confini e popolazioni - *comunque* le
cose siano andate in passato, *qualunque* sia il motivo che ha messo lì
i confini, là le popolazioni, e stabilire relazioni pacifiche con i
vicini.

Se oggi un Austriaco sostenesse uno stato di guera permanente contro
l'Italia per garantire il "diritto al ritorno" degli Optanten - se un
italiano facesse previsioni sulla futura scomparsa di Slovenia e
Croazia, e piantasse bandiere contro il "Riconoscimento",
quell'Austriaco e quell'Italiano verrebbero classificati come dei pazzi.

I Palestinesi hanno un'unica colpa: pensare che per loro si debba fare
un'eccezione.
Post by .sergio.
Post by Maurizio Pistone
Il giorno in cui i Palestinesi si convinceranno che l'unico modo per
tornare in Palestina, è fare la pace con Iraele, sarà un gran giorno.
sempre che Israele abbia davvero questa volontà. Finora non mi pare visto
che in questi anni continuava ad espropriare territorio che non le
appartiene e che non e' riconosciuto essere di Israele dalla comunità
internazionale.
vuoi dire, come a Gaza?
--
Maurizio Pistone strenua nos exercet inertia Hor.
http://blog.mauriziopistone.it
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Albert0
2008-06-12 09:55:53 UTC
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Post by Maurizio Pistone
Dopo la II Guerra Mondiale e i grandi traumi del dopoguerra, la gente ha
cominciato a pensare che questo modo di comportarsi sia da pazzi.
A guardare per esempio l'ex jugoslavia non è del tutto vero .
Secondo me , se all'epoca gli arabi fossero riusciti a soverchiare
Isreale, per esempio con l'Egitto che vinceva la guerra
i confini potevano cambiare.
In se, l'uso della forza palestinese non è una mossa sbagliata: la
cosa sbagliata è non avere una strategia,
una strategia che dice che israele è più forte per cui il massimo
obiettivo sono concessioni limitate.
Michele
2008-06-12 10:12:46 UTC
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Post by Albert0
Post by Maurizio Pistone
Dopo la II Guerra Mondiale e i grandi traumi del dopoguerra, la gente ha
cominciato a pensare che questo modo di comportarsi sia da pazzi.
A guardare per esempio l'ex jugoslavia non è del tutto vero .
Non è vero che cambiamenti di confini, e di composizioni etniche, non si
siano verificati; è vero che sono stati considerati comportamenti devianti.
Non è che i vari giocatori che hanno sostituito l'ex Jugoslavia abbiano, a
tutt'oggi, una fama di moderazione ed assennatezza, ti pare.
Post by Albert0
Secondo me , se all'epoca gli arabi fossero riusciti a soverchiare
Isreale, per esempio con l'Egitto che vinceva la guerra
i confini potevano cambiare.
E in effetti chi ha vinto ha cambiato i confini. Ma le osservazioni
dell'interlocutore erano rivolte anche alla soluzione delle questioni dei
rifugiati e dei gruppi etnici.
Se si ritiene che il ricorso alla forza non sia una mossa sbagliata, allora
purtroppo bisogna anche accettar eil verdetto della forza. Se ci si affida
alla spada, e questo non una ma più volte, non si può poi piagnucolare che
si vuole la bilancia.

la
Post by Albert0
cosa sbagliata è non avere una strategia,
una strategia che dice che israele è più forte per cui il massimo
obiettivo sono concessioni limitate.
Chi ha detto che Hamas non ha una strategia? Ce l'ha. E' una strategia da
fanatici religiosi, ovviamente visto che lo sono, e si può discutere se
appaia ragionevole a noi che non lo siamo, e se abbia possibilità di essere
vincente, pur nel lunghissimo termine cui i fanatici religiosi si rivolgono.
Ma dire che non ci sia una strategia mi pare erroneo.
EF
2008-06-12 12:52:23 UTC
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"Michele" ha scritto
...(cut) Chi ha detto che Hamas non ha una strategia? Ce l'ha. E' una
strategia da fanatici religiosi, ovviamente visto che lo sono, e si può
discutere se appaia ragionevole a noi che non lo siamo, e se abbia
possibilità di essere vincente, pur nel lunghissimo termine cui i fanatici
religiosi si rivolgono. Ma dire che non ci sia una strategia mi pare
erroneo.
Probabilmente una strategia ci sarà pure, ma, politicamente e militarmente
parlando, chiiunque la definirebbe perdente, visto che in 50 anni non ha
ottenuto nessun risultato tangibile per i palestinesi stessi. Il problema è
che, non essendoci un vero e proprio governo palestinese riconosciuto, gli
strateghi non possono essere sostituiti.
Ciò che mi fa saltare la mosca al naso (faccio per dire...) è il fatto che
lo stato di Israele venne in pratica imposto dall'ONU, quando il 15 maggio
1948 sancì la costituzione, e quindi il diritto all'esistenza, dello stesso.
Mi aspetto, di conseguenza, una risoluzione del problema da parte della
stessa ONU, risoluzione che mai è giunta e mai verrà, perché andrebbe ad
urtare gli interessi degli stessi arabi che, per primi, non vogliono i
palestinesi. Lo stesso 15 maggio 1948 gli arabi invasero il neo stato: la
loro sconfitta portò conseguenze bellico-territoriali comuni a tutte le
guerre della Storia umana.

Enzo Franchini
Maurizio Pistone
2008-06-12 13:37:36 UTC
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Post by EF
Ciò che mi fa saltare la mosca al naso (faccio per dire...) è il fatto che
lo stato di Israele venne in pratica imposto dall'ONU, quando il 15 maggio
1948 sancì la costituzione, e quindi il diritto all'esistenza, dello stesso.
guarda che nel 1948 l'ONU deliberò la costituzione non di uno Stato, ma
di due.
--
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Albert0
2008-06-12 13:22:22 UTC
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Post by Michele
Post by Albert0
Post by Maurizio Pistone
Dopo la II Guerra Mondiale e i grandi traumi del dopoguerra, la gente ha
cominciato a pensare che questo modo di comportarsi sia da pazzi.
A guardare per esempio l'ex jugoslavia non è del tutto vero .
Non è vero che cambiamenti di confini, e di composizioni etniche, non si
siano verificati; è vero che sono stati considerati comportamenti devianti.
Questo è vero; però è anche vero che gli occidentali hanno deciso che
gli aggrediti
croati erano dalla loro parte e li hanno aiutati.
E se aggressori ( cioè chi voleva cambiare i confini titini) fossero
stati i croati?
Credo in effetti che le cose non sarebbe cambiate perchè in europa non
si accettano più certi metodi...
però per me che abito vicino al confine è stato rivedere quasi in casa
la Vecchia Europa.
Se poi ci allontaniamo a est troviamo la cecenia: insomma non sono
metodi del tutto dimenticati.
Post by Michele
Se si ritiene che il ricorso alla forza non sia una mossa sbagliata, allora
purtroppo bisogna anche accettar eil verdetto della forza. Se ci si affida
alla spada, e questo non una ma più volte, non si può poi piagnucolare che
si vuole la bilancia.
E' quel che sto dicendo.
In questo caso l'uso della forza è stato determinante e fino a quando
la parte militarmente perdente
non accetta la sconfitta militare non se ne esce.
Post by Michele
Chi ha detto che Hamas non ha una strategia? Ce l'ha. E' una strategia da
fanatici religiosi, ovviamente visto che lo sono
Ok mi sono espresso male.
Per strategie intendevo un piano realistico , che a me sembra mancare.
Maurizio Pistone
2008-06-12 12:13:07 UTC
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Post by Albert0
Post by Maurizio Pistone
Dopo la II Guerra Mondiale e i grandi traumi del dopoguerra, la gente ha
cominciato a pensare che questo modo di comportarsi sia da pazzi.
A guardare per esempio l'ex jugoslavia non è del tutto vero .
be' alcuni dei protagonisti di quella vicenda sotto attivamente
ricercati da un tribunale internazionale, Milosevic è morto guardando il
sole a scacchi ecc.
--
Maurizio Pistone strenua nos exercet inertia Hor.
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Albert0
2008-06-12 13:42:10 UTC
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Post by Maurizio Pistone
Post by Albert0
A guardare per esempio l'ex jugoslavia non è del tutto vero .
be' alcuni dei protagonisti di quella vicenda sotto attivamente
ricercati da un tribunale internazionale, Milosevic è morto guardando il
sole a scacchi ecc.
Vae victis!!

In sostanza sono d'accordo ed è vero che viviamo in un mondo poco
guerresco,
ma l'esempio è viziato dal fatto che questi sono militarmente
perdenti.
Israele sembra proprio il controesempio, ma lo sono anche i nemici
delle Cecenia e del Tibet.
In alcuni casi ancora oggi vale il diritto del più forte.
.sergio.
2008-06-12 08:59:35 UTC
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Post by Maurizio Pistone
Post by .sergio.
Fra l'altro gli esempi che fai sono sballati. O i Palestinesi sono
responsabili della Shoah o di un regime come il III Reich?
se dal mio intervento si ricava una cosa del genere, vuol dire che sono
diventato assolutamente incapace di farmi capire.
il paragone fatto con i Tedeschi porta a questo.
Post by Maurizio Pistone
Fino a sessant'anni fa era comunemente accettato nel mondo che fare una
guerra per spostare un confine o una popolazione fosse pienamente
legittimo.
a seguito di una guerra persa, in genere.
Siamo nello stesso caso della proclamazione di Israele e la cacciata dei
palestinesi?
Post by Maurizio Pistone
I Palestinesi hanno un'unica colpa: pensare che per loro si debba fare
un'eccezione.
forse perche' non avevano colpe verso Israele e gli ebrei in particolare?
Post by Maurizio Pistone
Post by .sergio.
Post by Maurizio Pistone
Il giorno in cui i Palestinesi si convinceranno che l'unico modo per
tornare in Palestina, è fare la pace con Iraele, sarà un gran giorno.
sempre che Israele abbia davvero questa volontà. Finora non mi pare visto
che in questi anni continuava ad espropriare territorio che non le
appartiene e che non e' riconosciuto essere di Israele dalla comunità
internazionale.
vuoi dire, come a Gaza?
No, come nella West Bank o a Gerusalemme. Mica ti sfugge che li'
l'occupazione e la pulizia etnica continua, vero?


Sergio
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Maurizio Pistone
2008-06-12 12:13:08 UTC
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Post by .sergio.
Post by Maurizio Pistone
I Palestinesi hanno un'unica colpa: pensare che per loro si debba fare
un'eccezione.
forse perche' non avevano colpe verso Israele e gli ebrei in particolare?
boh, e che colpe hanno i Messicani verso gli USA?
--
Maurizio Pistone strenua nos exercet inertia Hor.
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Maurizio Pistone
2008-06-12 12:13:07 UTC
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Post by .sergio.
Post by Maurizio Pistone
Post by .sergio.
Fra l'altro gli esempi che fai sono sballati. O i Palestinesi sono
responsabili della Shoah o di un regime come il III Reich?
se dal mio intervento si ricava una cosa del genere, vuol dire che sono
diventato assolutamente incapace di farmi capire.
il paragone fatto con i Tedeschi porta a questo.
no, assolutamente. Io parlavo di una deportazione *di* Tedeschi, non di
una deportazione *ad opera di* Tedeschi.

Sono due vicende storiche diverse, anche se appartengono al medesimo
conflitto.
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Michele
2008-06-12 17:00:53 UTC
Permalink
Post by Maurizio Pistone
Post by .sergio.
Post by Maurizio Pistone
Post by .sergio.
Fra l'altro gli esempi che fai sono sballati. O i Palestinesi sono
responsabili della Shoah o di un regime come il III Reich?
se dal mio intervento si ricava una cosa del genere, vuol dire che sono
diventato assolutamente incapace di farmi capire.
il paragone fatto con i Tedeschi porta a questo.
no, assolutamente. Io parlavo di una deportazione *di* Tedeschi, non di
una deportazione *ad opera di* Tedeschi.
Ma forse non a tutti piace ricordare la deportazione dei Tedeschi verso
Ovest ad opera dell'URSS alla fine della guerra, e da questo nasce
l'equivoco.
Maurizio Pistone
2008-06-12 17:26:18 UTC
Permalink
Post by Michele
Ma forse non a tutti piace ricordare la deportazione dei Tedeschi verso
Ovest ad opera dell'URSS alla fine della guerra, e da questo nasce
l'equivoco.
l'espressione " ...espulsione di milioni di Tedeschi dalla Prussia
Orientale e da altri territori dell'Est ... " non mi sembrava equivoca.

Pensavo che tutti fossero al corrente della vicenda, e del fatto che per
decenni questi espulsi, e i loro discendenti, hanno rappresentato un
discreto fattore di instabilità nella RFT.

La Costituzione della Repubblica Federale dichiarava l'aspirazione alla
riunificazione fra le due Germanie, ma non certo la riconquista dei
territori perduti a favore della Polonia e dell'URSS. L'Ostpolitik di
Willy Brandt si basò tra l'altro sull'accettazione esplicita ed
incondizionata dei confini emersi dalla II Guerra Mondiale.
--
Maurizio Pistone strenua nos exercet inertia Hor.
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Albert0
2008-06-12 13:22:31 UTC
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Post by Maurizio Pistone
Post by .sergio.
Fra l'altro gli esempi che fai sono sballati. O i Palestinesi sono
responsabili della Shoah o di un regime come il III Reich?
se dal mio intervento si ricava una cosa del genere, vuol dire che sono
diventato assolutamente incapace di farmi capire.
Post by .sergio.
il paragone fatto con i Tedeschi porta a questo.
Secondo per me no e trovo del tutto incongrua la tua deduzione.
Post by Maurizio Pistone
Post by .sergio.
Fino a sessant'anni fa era comunemente accettato nel mondo che fare una
guerra per spostare un confine o una popolazione fosse pienamente
legittimo.
a seguito di una guerra persa, in genere.
Siamo nello stesso caso della proclamazione di Israele e la cacciata dei
palestinesi?
La guerra c'è stata , non subito ma dopo e continua a bassa intensità
tutt'ora.
Post by Maurizio Pistone
Mica ti sfugge che li'
l'occupazione e la pulizia etnica continua, vero?
Ecco appunto lo dici anche tu!
E quando le guerre si perdono si accetta un trattato.
Albert0
2008-06-12 13:35:31 UTC
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Nota: mi è partito un messaggio a metà, non considerarlo.

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Post by .sergio.
Post by Maurizio Pistone
Fino a sessant'anni fa era comunemente accettato nel mondo che fare una
guerra per spostare un confine o una popolazione fosse pienamente
legittimo.
a seguito di una guerra persa, in genere.
Siamo nello stesso caso della proclamazione di Israele e la cacciata dei
palestinesi?
Mica ti sfugge che li'
l'occupazione e la pulizia etnica continua, vero?
Ancora:
"... la politica dello stato di fatto, portata avanti dai leader
israeliani, i quali con grande lungimiranza badarono soprattutto e
prima
di tutto a costruire un esercito formidabile che già nel 1948 non
aveva
pari nella regione. "


Come vedi c'è una guerra anche qui.
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