Post by m.m.Queindi restiamo alla sola questione palestinese. Ora: nel '48,
subito dopo la fondazione dello Stato e l'aggressione, Israele espulse dai
territori grupi di palestinesi.
siamo certi che la pulizia etnica inizio' dopo?
Aggiungo alla discussione l'interessante articolo apparso su Le Monde
Diplomatique scritto dall'ex ambasciatore francese Eric Rouleau .
Israele affronta la sua storia
di Eric Rouleau *
Negli anni '80, è iniziata, nell'intellighenzia israeliana, una profonda
mutazione, legata all'arrivo di una nuova generazione di uomini e donne
che non hanno conosciuto la Shoah né la creazione dello stato d'Israele.
Un'evoluzione che testimonia anche della progressiva maturazione di élite
ormai capaci di giudicare senza complessi il passato e di liberarsi da
miti e tabù trasmessi dai dirigenti israeliani.
L'anticonformismo di questi intellettuali - storici, sociologi, filosofi,
scrittori, giornalisti, cineasti, artisti - fa la sua comparsa nel periodo
successivo alla guerra dei sei giorni, nel 1967; ad alimentare la
contestazione sono l'occupazione, la resistenza palestinese, l'ascesa al
potere della destra nazionalista e religiosa nel 1977, la crescente
influenza di coloni e rabbini espansionisti, nonché l'esacerbarsi delle
tensioni tra clericali e laici. «Quando parlano di Tel Aviv, i religiosi
dicono spesso Sodoma e Gomorra, mentre, per i laici, Gerusalemme, è la
Tehran degli ayatollah», osserva Michel Warschawski, uno dei dirigenti
dell'ala radicale del movimento pacifista.
La pace con l'Egitto, nel 1979, suscita la speranza di un ordine globale,
che l'invasione del Libano delude nel 1982. Quest'ultima, vissuta
dall'opinione pubblica come la prima guerra offensiva di Israele, è stata
scatenata per ragioni rivelatesi false. Contrariamente a quanto sostenuto
dal governo israeliano, l'Organizzazione per la liberazione della
Palestina (Olp), che il tandem Menahem Begin - Ariel Sharon cercava di
annientare, non aveva messo in atto alcuna provocazione. Al contrario,
mostrava già di volersi impegnare sulla via del compromesso. E comunque,
non metteva in pericolo l'esistenza dello stato ebraico. All'epoca, molti
israeliani si sono scandalizzati per l'estrema brutalità del loro
esercito, per il numero esorbitante di vittime tra i civili palestinesi e
libanesi, fino ad arrivare allo spaventoso massacro di Sabra e Chatila,
compiuto alla luce del sole dalle unità di Tsahal.
Avvengono allora fatti senza precedenti: ben quattrocentomila persone
manifestano al centro di Tel Aviv; cinquecento ufficiali e soldati
disertano; il movimento dei refuznik dà voce a coloro che rifiutano di
servire nell'esercito, prima in Libano, poi nei territori occupati.
La «purezza delle armi», vanto dello stato ebraico fin dalla sua nascita,
è seriamente compromessa.
Alcuni giovani storici contribuiscono, più o meno consapevolmente, a
gettare discredito sullo slogan. Prendendo visione degli archivi
ufficiali, ampiamente messi a disposizione nel 1978 - trent'anni dopo lo
svolgimento dei fatti in oggetto, come vuole la legge israeliana - ,
scoprono che il comportamento delle forze armate israeliane, prima e
durante la guerra del 1948, non corrisponde minimamente all'immagine
idilliaca diffusa dalla propaganda. Il primo che, basandosi su documenti
ufficiali, pubblica un libro che elenca i «sette miti principali»
utilizzati per decenni per ingannare l'opinione pubblica (1), è Simha
Flapan, uno dei dirigenti del partito di sinistra Mapam e fervente
sionista fino alla sua morte.
Esporre e analizzare le conclusioni di coloro che vengono comunemente
indicati come i «nuovi storici» (2) è l'obiettivo del libro di Dominique
Vidal (in collaborazione con Sébastien Boussois). Si tratta di ricercatori
che, per la prima volta dalla creazione dello stato d'Israele, fondano i
loro lavori non su informazioni di seconda mano, come i loro predecessori,
ma su documenti incontestabili presi negli archivi del consiglio dei
ministri, dell'esercito, del Palmach (truppe d'assalto), delle
organizzazioni sioniste e dai diari del primo ministro e ministro della
difesa David Ben Gurion, tra gli altri. Il libro descrive così le
circostanze che conducono alla guerra contro gli eserciti arabi,
stigmatizza il ruolo, quanto meno ambiguo, di Ben Gurion, poi dedica un
capitolo a Benny Morris, il capofila dei «nuovi storici», che definisce
«schizofrenico» a causa del divario tra il suo impegno, in quanto storico
alla ricerca della verità, e le sue posizioni politiche vicine all'estrema
destra israeliana.
Analizza infine l'ultimissima opera di Ilan Pappé, Le Nettoyage ethnique
de la Palestine, che provocò un tale scandalo - dopo tanti altri - che il
suo autore dovette dare le dimissioni dall'università di Haifa e andare in
esilio presso un'università britannica.
«Rendere la Palestina ebrea, quanto l'America è americana e l'Inghilterra
è inglese» Pappé non è il primo intellettuale dissidente, e sicuramente
non sarà l'ultimo, a espatriare per sfuggire, scrive, all'ambiente
soffocante che circonda gli «appestati» come lui. Eppure, è molto
difficile contestare le sue ricostruzioni, molto più dettagliate di quelle
dei suoi predecessori. Lo storico di Haifa, infatti, ha avuto accesso a
nuovi documenti, tratti dagli ultimi sessant'anni degli archivi israeliani
(e non dagli ultimi quaranta, come, per lo più, i suoi predecessori). Ma
si è anche basato sugli scritti di storici palestinesi, spesso testimoni
oculari degli avvenimenti. E ha raccolto le testimonianze dei
sopravvissuti alla pulizia etnica, fino ad allora stranamente trascurati
dai suoi colleghi o per aprioristico rifiuto delle testimonianze, o per
diffidenza, o ancor più banalmente, per ignoranza della lingua araba -
testimonianze tanto più preziose, in quanto gli stati arabi a tutt'oggi
rifiutano di aprire gli archivi ai ricercatori.
Le divergenze tra Pappé e Morris non sono, in ultima analisi, veramente
fondamentali. L'uno e l'altro confermano prima di tutto che la guerra del
1948 non è stata, come si è preteso, un combattimento tra «David e Golia»,
perché le forze israeliane erano nettamente superiori, per effettivi e
armamenti, ai loro avversari. Nel pieno della guerra civile
israelo-palestinese, si contarono solo alcune migliaia di combattenti
palestinesi, mal equipaggiati e spalleggiati dai volontari arabi
dell'Esercito di liberazione condotto da Fawzi Al Qawuqji.
E, anche quando, il 15 maggio 1948, entrarono in campo gli stati arabi, i
loro contingenti erano di molto inferiori a quelli della Hagana, che
peraltro in seguito continuò a rafforzarsi. Inoltre, i due storici
concordano, gli eserciti arabi hanno invaso la Palestina in extremis (e
alcuni a malincuore), non per «distruggere il giovane stato ebraico», cosa
di cui si sapevano incapaci, ma per impedire che Israele e la
Transgiordania - in «combutta», secondo lo storico Avi Shlaim -
suddividessero tra loro il territorio destinato ai palestinesi dal piano
di spartizione dell'Onu del 29 novembre 1947. «Siamo in grado di occupare
tutta la Palestina, ne sono certo», scriveva Ben Gurion a Moshe Sharett
già nel febbraio 1948, ossia tre mesi prima della guerra israelo-araba e
poche settimane prima della consegna di un massiccio quantitativo di
armamenti inviati, via Praga, dall'Unione sovietica. Il che non gli impedì
di continuare a proclamare che Israele era minacciata da un «secondo
Olocausto».
Travolto dall'euforia per le vittorie riportate, riferisce Pappé, il
«padre» dello stato ebraico, già nella prima settimana di guerra (il 24
maggio), scriveva nel suo diario personale: «Costituiremo uno stato
cristiano in Libano (...). Distruggeremo la Transgiordania, bombarderemo
la sua capitale, annienteremo il suo esercito (...).
Metteremo in ginocchio la Siria (...). La nostra aviazione attaccherà Port
Said, Alessandria e il Cairo, e così vendicheremo i nostri antenati
oppressi, all'epoca biblica, dagli egiziani e dagli assiri... » Morris e
Pappé sfatano anche la leggenda, accuratamente coltivata dai dirigenti
israeliani, secondo cui i palestinesi avrebbero lasciato volontariamente
le loro case, in seguito agli appelli lanciati dalle autorità e dalle
radio arabe (trasmissioni inventate di sana pianta dalla propaganda
israeliana, come dimostrano le registrazioni integrali realizzate dalla
British Broadcasting Corporation [Bbc]). Al contrario, i due storici
confermano quel che già si sapeva dalla fine degli anni '50: sono state le
stesse autorità israeliane a costringere i palestinesi all'esodo,
ricorrendo ai ricatti, alle minacce, al terrore e alla brutalità delle
armi per cacciarli dalle loro terre.
Divergono, invece, sul senso di queste espulsioni: per Morris, sono solo
«danni collaterali»; «la guerra è guerra», spiega, aggiungendo, più
recentemente (3) e non senza cinismo, che Ben Gurion avrebbe dovuto
espellere fino all'ultimo palestinese. Laddove Morris descrive un esodo
«nato dalla guerra, e non dalla volontà israeliana o araba», Pappé
dimostra che la pulizia etnica è stata pianificata, organizzata e messa in
atto per estendere il territorio dello stato d'Israele e «ebraicizzarlo».
A ragion veduta. Perché, sebbene i dirigenti sionisti avessero
pubblicamente approvato il piano di spartizione proposto dalle Nazioni
unite, in realtà lo ritenevano inaccettabile: la loro era un'approvazione
di tipo tattico, come dimostrano sia numerosi documenti d'archivio che il
diario di Ben Gurion.
Certo, a loro era stata attribuita più della metà della Palestina, mentre
il resto spettava agli arabi autoctoni, sebbene fossero due volte più
numerosi degli ebrei. Tuttavia - ed era questo il problema - , il
territorio previsto per lo stato d'Israele sembrava loro troppo piccolo,
per i milioni d'immigrati che i dirigenti speravano di accogliere; per di
più, quattrocentocinquemila arabi palestinesi vi avrebbero convissuto con
cinquecentocinquantottomila ebrei, il che voleva dire che questi ultimi
avrebbero costituito solo il 58% della popolazione del futuro stato
ebraico. Il sionismo rischiava così di perdere totalmente la sua ragione
d'essere: «Rendere la Palestina ebrea, quanto l'America è americana e
l'Inghilterra è inglese», secondo la formula di Haim Weizmann, futuro
primo presidente d'Israele.
Ecco perché il «trasferimento» (eufemismo che sta per espulsione) degli
arabi autoctoni fuori dalle frontiere era il pensiero fisso dei dirigenti
sionisti, che ne dibattevano continuamente, di preferenza a porte chiuse.
Fin dalla fine del XIX secolo, Theodor Herzl aveva suggerito al sultano
ottomano di deportare i palestinesi per fare spazio alla colonizzazione
ebrea. Nel 1930, Weizmann rifece la stessa proposta al governo britannico,
la potenza mandataria della Palestina.
Nel 1938, dopo la proposta di un mini-stato ebraico, accompagnata dal
trasferimento degli arabi prevista dalla commissione britannica diretta da
lord Peel, Ben Gurion dichiara davanti al comitato esecutivo dell'Agenzia
ebraica: «Sono favorevole a un trasferimento obbligatorio, una misura che
non ha niente d'immorale». La guerra del 1948 doveva offrirgli l'occasione
sognata per mettere in atto il suo progetto, lanciando contro la
popolazione autoctona, sei mesi prima dell'intervento degli eserciti
arabi, l'offensiva destinata a sradicarla. Per fare questo, rivela Pappé,
si serviva di un archivio relativo a tutti i villaggi arabi, con
informazioni demografiche ed economiche, ma anche politiche e militari,
uno schedario messo in piedi dall'Agenzia ebrea a partire dal 1939 e
costantemente aggiornato durante gli anni '40.
I mezzi ai quali le forze israeliane hanno fatto ricorso - che Pappé
analizza nel dettaglio - fanno venire i brividi, anche se non sono diverse
dalle atrocità commesse nel corso di epurazioni etniche condotte da altri
popoli fin dalla più remota antichità. Il bilancio effettuato dallo
storico è eloquente: in pochi mesi, sono state recensite diverse decine di
massacri e di esecuzioni sommarie; cinquecentotrentuno villaggi (su un
migliaio), distrutti o riconvertiti per accogliere immigrati ebrei; undici
centri urbani, etnicamente misti, svuotati dei loro abitanti arabi...
Ed infatti è sulla punta delle baionette che tutti i palestinesi di Ramleh
e di Lydda, settantamila persone, bambini e vecchi compresi, sono cacciati
in poche ore, a metà luglio del 1948, su istruzioni di Ben Gurion. Ne
fanno fede le Memorie (ulteriormente censurate) del futuro primo ministro
Itzhak Rabin, all'epoca ufficiale superiore, incaricato, con Yigal Allon,
dell'operazione. Ricacciati verso la frontiera della Transgiordania, molti
di loro muoiono di sfinimento per strada. Lo stesso era avvenuto, in
aprile, a Jaffa, dove cinquantamila abitanti arabi avevano dovuto fuggire,
terrorizzati dal cannoneggiamento dell'artiglieria dell'Irgun e dalla
paura di nuovi massacri. È quel che lo stesso Morris chiama il «fattore
atrocità».
Servire la causa della pace, ristabilendo la verità sull'ingiustizia
commessa nel 1948 Questi orrori sono tanto più ingiustificati, in quanto
molti villaggi arabi, a detta di Ben Gurion, avevano proclamato la loro
volontà di non opporsi alla suddivisione della Palestina e alcuni avevano
anche concluso in questo senso accordi di non-belligeranza con i loro
vicini ebrei. Come nel caso di Deir Yassin, dove, nonostante tutto, le
forze irregolari dell'Irgun e del Lehi («banda Stern») massacrarono una
gran parte della popolazione - con, secondo Flapan, il tacito accordo
dell'esercito «regolare» dell'Agenzia ebraica, l'Hagana.
Complessivamente, tra settecentocinquantamila e ottocentomila palestinesi
dovettero prendere la strada dell'esilio dal 1947 al 1949, mentre i loro
beni mobili e immobiliari venivano confiscati. Secondo la stima di un
ufficiale israeliano citato da Vidal, il Fondo nazionale ebreo s'impadronì
di trecentomila ettari di terre arabe, di cui dette l'essenziale ai
kibbutz. L'operazione non poteva essere meglio concepita: all'indomani del
voto dell'Assemblea generale delle Nazioni unite, l'11 dicembre 1948,
sulla famosa risoluzione del «diritto al ritorno», il governo israeliano
adotta la legge d'urgenza relativa alle proprietà degli assenti che,
completando quella del 30 giugno 1948 sulla coltura delle terre
abbandonate, legalizza retroattivamente la spoliazione e proibisce ai
derubati di rivendicare una qualsiasi compensazione e di tornare alle loro
case.
Nonostante le proteste di alcuni membri del governo israeliano,
scandalizzati dalla brutalità della pulizia etnica, Ben Gurion - che non
l'aveva esplicitamente ordinata per iscritto - non fa niente per
interromperla o condannarla. Si limita a denunciare i saccheggi e gli
stupri ai quali si abbandonavano alcuni soldati di Tsahal, i quali
beneficiarono tuttavia di una totale impunità. Ma la cosa forse più
sorprendente, è il pesante silenzio della «comunità internazionale» per
diversi decenni, quando gli osservatori stranieri, compresi quelli
dell'Onu, non potevano certo ignorare le atrocità commesse. Si capisce
meglio, allora, perché i palestinesi commemorano la Nakba («catastrofe»),
e non la «guerra d'indipendenza d'Israele», che il recente Salone del
libro parigino ha scelto di celebrare.
Ricollegandosi agli storici della guerra del 1948, Avi Shlaïm, professore
di lunga data al St Antony's College di Oxford, ha appena pubblicato Le
Mur de fer. Israël et le monde arabe. Vi distrugge un altro mito: quello
di uno stato d'Israele amante della pace, che si scontra con il bellicismo
degli stati arabi decisi a distruggerlo. Il titolo del libro è tratto
dalla dottrina di Zeev Jabotinsky: fin dal 1923, questo padre della destra
ultranazionalista sosteneva che bisognasse rinunciare a trattare un
accordo di pace prima di aver colonizzato la Palestina al riparo di un
«muro di ferro», perché gli arabi avrebbero capito solo la logica della
forza. Avendo adottato questa dottrina nella pratica, uomini politici e
militari israeliani, di sinistra come di destra, avrebbero in generale
sabotato i successivi progetti di pace. Ritenendo che il tempo gioca a
favore di Israele, con la pretesa che quest'ultimo non abbia «partner per
la pace» (dixit Ehoud Barak), i dirigenti di Gerusalemme aspettano sempre
che la parte avversa si rassegni ad accettare l'espansione territoriale
dello stato ebraico, il frazionamento e la demilitarizzazione di un
ipotetico stato palestinese, condannato a diventare un mosaico di
bantustan satellizzati. Il libro di Shlaim, la cui edizione inglese nel
2000 è stata un successo (più di cinquantamila copie vendute), è stato
tradotto in molte lingue prima di essere stampato in ebraico cinque anni
più tardi: la quasi totalità degli editori israeliani l'aveva fin lì
considerato «privo di interesse». Comunque, Shlaim ammette di «riconoscere
la legittimità del movimento sionista e quella dello stato d'Israele nelle
frontiere del 1967».
Precisa tuttavia: «In compenso, rifiuto totalmente il progetto coloniale
sionista oltre questa frontiera». Con alcune eccezioni, storici,
sociologi, scrittori, giornalisti e cineasti che appartengono alla nuova
ondata dell'intellighenzia sono, come lui, sionisti di un genere nuovo,
soprannominati i «postsionisti». Tutti sono convinti di servire la causa
della pace ristabilendo la verità storica e riconoscendo i torti inflitti
ai palestinesi.
Per capire il senso e la portata di questa mutazione iniziata negli anni
'80, è interessante leggere l'inchiesta condotta da Boussois in Israele,
sia tra i «nuovi storici» che tra i loro avversari (4).
Alcuni ne concluderanno che la realizzazione di uno stato d'Israele
«normalizzato», in pace con i suoi vicini, dipenderà in gran parte
dall'impatto che avranno questi intellettuali contestatari sulla società,
e soprattutto sul mondo politico israeliano. È quello che scrive, a suo
modo, Yehuda Lancry, ex ambasciatore d'Israele in Francia e negli Stati
uniti: «i "nuovi storici", anche attraverso il radicalismo di Ilan Pappé,
sono altrettanti esploratori della parte oscura della coscienza collettiva
israeliana, sono coloro che preparano una più convinta adesione al mutuo
riconoscimento e alla pace con i palestinesi. Il loro lavoro, lungi dal
rappresentare una fonte di problemi per Israele, fa onore al loro paese -
e, ancora di più: è un dovere, un obbligo morale, una prodigiosa presa in
carico di un'impresa liberatoria capace d'iscrivere nel vissuto israeliano
le linee di rottura, gli interstizi salutari, necessari all'inserimento
del discorso dell'Altro (5)».
note:
* Giornalista, ex ambasciatore di Francia.
(1) The Birth of Israel: Myths and Realities, Pantheon Books, New York,
1987. Purtroppo, quest'opera pionieristica non è stata tradotta in
francese.
(2) Comment Israël expulsa les Palestiniens costituisce un'edizione
attualizzata e ampliata dell'opera Le Péché originel d'Israël, pubblicato
dallo stesso autore in collaborazione con Josef Algazy (L'Atelier, 1998).
(3) In un'intervista al quotidiano Haaretz, Tel Aviv, l'8 gennaio 2004.
(4) In Comment Israël..., op. cit. Boussois è peraltro l'autore di Israël
confronté à son passé, L'Harmattan, Parigi, 2008.
(5) Prefazione a Comment Israël..., op. cit.
(Traduzione di G. P.) AVRAHAM BURG Vaincre Hitler. Pour un judaïsme plus
humaniste et universaliste (Fayard, Parigi, 2008, 359 pagine, 23 euro)
ILAN PAPPÉ Le Nettoyage ethnique de la Palestine (Fayard, Parigi, 2008,
394 pagine, 22 euro) in it.: La pulizia etnica in Palestina (Fazi, 2008,
19 euro) AVI SHLAìM Le Mur de fer. Israël et le monde arabe
(Buchet-Chastel, Parigi, 2008, 759 pagine, 29 euro) in it.: Il muro di
ferro. Israele e il mondo arabo (Il Ponte Editrice, 2003, 29 euro)
DOMINIQUE VIDAL Comment Israël espulsa les Palestiniens (1947-1949)
(L'Atelier, Ivry-sur-Seine, 2007, 256 pagine, 21 euro)
Da Le Monde Diplomatique di maggio 2008
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questo articolo e` stato inviato via web dal servizio gratuito
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