Intanto grazie per l'attenzione, perché mi dai modo di spiegarmi un po'
più chiaramente.
Post by ***@alice.itL'articolo propone di interpretare questa autonomia in primo luogo
alla luce dell'antimeridionalismo, e accenna alla peculiare
intonazione che l'individuazione dell'obiettivo ha prodotto. Mi pare
un'ipotesi di lavoro perlomeno meritevole di discussione.
Discutiamola allora. Gli esiti del Risorgimento nel Meridione e le
reazioni popolari agli errori comportano la necessità di valutare il
problema del Mezzogiorno. Non mancarono, come noto, indagini
approfondite svolte dal Parlamento stesso, con notevoli e acute
osservazioni. Senonché occorre poi reagire concretamente alle sommosse
popolari e all'impossibilità di garantire un qualche progresso alle
plebi meridionali. A fronte della loro demotivazione, della resistenza o
comunque della passività di queste, i livelli bassi delle
amministrazioni centrali e praticamente tutti i livelli militari
utilizzarono come criterio giustificativo il razzismo. O almeno: toni e
valutazioni che oggi possono essere comprese nella categoria di
razzismo. IL razzismo ebbe poi giustificazioni di carattere scientifico
(Lombroso ad esempio: uno che comincia a misurare i crani e finisce per
fare lo spiritismo per parlare con la madre) ma queste giustificazioni
non penetrarono mai nell'alta cultura italiana, né sul piano giuridico
né su quello filosofico, per intenderci. Restò, il razzismo, un comodo
strumento per alcuni settori della borghesia per disfarsi di fastidiosi
problemi.
Ecco, qui credo che la nostra lettura diverga decisamente: bisogna
innanzitutto intendersi sul significato di "alta cultura italiana". Hai
certamente ragione se sostieni che questa cultura coincide
sostanzialmente con la filosofia di Croce e Gentile; dagli studi,
naturalmente fondamentali, di Bobbio e Garin di acqua sotto i ponti ne è
però passata un bel po', mi pare. Lavori come quello di Giuseppe Are e
soprattutto di Silvio Lanaro (Nazione e lavoro, Marsilio, prima edizione
1979) hanno sostenuto, a me pare in modo piuttosto persuasivo, che la
cultura nazionale della borghesia italiana si aggrega intorno a un
sapere tecnico-scientifico e giuridico-economico, modernizzante sì, ma
intriso di autoritarismo antidemocratico (e antiliberale), cui teoriche
imperialiste, demografiche, nativiste e quindi anche razziste risultano
non solo congeniali ma consustanziali (questo naturalmente in generale,
non in riferimento a tutti i soggetti coinvolti). In altre parole, il
ritardo dell'unificazione italiana e la sua sovrapposizione con
dinamiche proprie dell'età dell'imperialismo fa sì che si assista a un
processo di "nazionalizzazione per contrasto" - come sostiene Michele
Nani nel suo bellissimo libro (Ai confini della nazione. Stampa e
razzismo nell'Italia di fine Ottocento, Carocci, Roma, 2006),
riprendendo una formula moschiana - in cui il razzismo ha un ruolo
tutt'altro che secondario, come lo stesso autore ha potuto verificare a
partire dall'analisi un case study, cioè la costruzione del senso comune
attraverso la stampa in una città (Torino).
Post by ***@alice.itCon il Fascismo il razzismo torna in auge.
Vedi che se fai del razzismo un fenomeno assolutamente minoritario ed
estraneo al milieu culturale dell'Italia monarchica questo passaggio
risulta in qualche modo misterioso? Risulta cioè misteriosa la così
ampia disponibilità offerta da intellettuali in generale (De Felice),
militanti e funzionari (come dice Isnenghi), e scienziati in particolare
(Maiocchi) a farsi latori di questa nuova vulgata, il cui rapido
successo non può essere spiegato in chiave di puro e semplice opportunismo.
Post by ***@alice.itLo fa, come dire, prima di
essere ufficializzato. Mussolini scrisse nel 1936 a Hitler prendendo
posizione contro l'idea, girata negli ambienti sportivi tedeschi, di far
lo stesso Mussolini riteneva chiaramente inferiori i siciliani ai
piemontesi. IL suo razzismo, ancora un razzismo interno, aveva lo scopo
strumentale di fornire una base per la gerarchizzazione della società.
Neanche qui sono molto d'accordo. Intanto commetti alcuni errori
fattuali, dal momento che il razzismo fu ufficializzato prima di
diventare antisemita e addirittura prima del fascismo, visto che lo si
ritrova in alcune leggi di epoca giolittiana (la prima apparizione del
termine "razza" in un testo legislativo risale all'art. 4 della legge
205 del 1903 sulla colonia d'Eritrea) e successive leggi - peraltro
assolutamente in linea con coeve normative coloniali europee,
specialmente inglesi e tedesche - che vietavano matrimoni misti e
convivenze, che però nel caso italiano avevano un carattere parziale
perché riguardavano solo funzionari coloniali. Un salto di qualità si
verifica sotto il fascismo, che ci regala la prima "norma italiana
esplicitamente ed effettivamente razzista, perché, a differenza delle
norme del 1909-14, concerneva un intero gruppo di persone" (introduce la
nozione di "razza bianca"), vale a dire la legge organica per l'Eritrea
e la Somalia, del luglio 1933, che prevedeva, fra l'altro la necessità
di procedere a un'analisi "antropologica etnica" finalizzata
"all'accertamento della razza" nell'ottica di una politica di
limitazione del numero di cittadini non totalmente bianchi (per quanto
sopra, sto citando da Sarfatti, Gli ebrei nell'Italia fascista, Einaudi,
Torino, 2007, pp. 103-4). Anche l'antisemitismo fascista a livello
ideologico non data al '38 e nemmeno al '36, ma lo accompagna, seppure
minoritariamente e in modo lontano "dalla centralità sacrale e quasi
mistica dell'antisemitismo tedesco che ha dalla sua la lunga tradizione
del mondo tedesco e mitteleuropeo" (N. Tranfaglia, Sull'antisemitismo
fascista in Labirinto italiano, La Nuova Italia, Firenze, 1989, pag.
80), dalla sua nascita, mentre una vera e proprio politica antisemita,
di progressiva estromissione degli ebrei dalla vita pubblica, data
sicuramente dal '36 come dimostra il famoso il rapporto del prefetto di
Ferrara del luglio '36 che da conto dell'"opera di sfaldamento" della
presenza ebraica nelle cariche pubbliche cittadine che va intraprendendo
per non turbare "i rapporti di concordia ambientale" dopo i ripetuti
episodi di scritte antisemite in città. (Sulla questione specifica e
sulla politica antisemita fascista in generale, rimando ancora a Sarfatti).
Né sul piano ideologico concordo nel ritenere che la funzione
gerarchizzante *all'interno* sia la più importante attribuita al
razzismo: l'"inegualismo", come diceva Marinetti, appartiene al DNA del
fascismo, sia nel suo cote aristocratico letterario, che in quello
scientifico tecnocratico (gerarchia delle competenze) e non aveva quindi
bisogno del razzismo (ciò naturalmente non vuol dire negare che il
razzismo "presentava dei punti di saldature pefettamente coerenti con i
cardini di una visione ideologica generale che considerava valori
assolutamente imprescindibili le disuguaglianze e le gerarchie, il
dominio e i rapporti di forza tra le nazioni non meno che tra gli
uomini." P.G. Zunino, L'ideologia del fascismo, Il Mulino, Bologna,
1995, pag. 272). Mi pare ci sia sufficiente concordia tra gli studiosi
nell'affermare che il razzismo è direttamente connesso con la
totalitarizzazione del regime, cioè "Attribuirne l'origine [dei
provvedimenti antiebraici del 1938] unicamente alla necessità di
rendersi bene accetto alla Germania nazista è profondamente fuorviante.
La campagna antisemita ebbe anche questo risvolto, ma essa ubbidì in
primo luogo ad esigenze di carattere interno. Essa fu il momento
centrale dello sforzo di cementare all'interno il livello del consenso
con un processo massiccio di emarginazione delle diversità, intese come
possibile potenziale di dissenso. La polarizzazione verso il diverso
aveva quindi la funzione di accelerare la concentrazione di tutte le
energie in una direzione unica. L'obiettivo immediato del bombardamento
propagandistico e delle misure restrittive era l'ebreo, ma i destinatari
dei messaggi che l'operazione ebbe di mira erano tutti coloro che
non si identificavano ancora con il regime fascista." (E. Collotti,
Fascismo, fascismi, Sansoni, Firenze, 1989, pp. 56-7). De Felice segnala
anche, come concause, l'attività di alcuni ebrei e organizzazioni
ebraiche straniere, e come causa principale, oltre al desiderio di
combattere lo "spirito borghese", l'avvicinamento alla Germania, da
intepretarsi però nell'ottica della "prova" a cui Mussolini vedeva
chiamata l'Italia in un futuro non ben determinato ma inevitabile (De
Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario, Einaudi, Torino, 1981,
pp. 314 e ss.). Si tratta in altre parole, ancora una volta, del movente
imperialista, così che lo stesso Collotti può più recentemente
sintetizzare: "Si può dire che, alla fine, essa altro non fosse che un
ingrediente necessario nella preparazione psicologica della popolazione
italiana alla guerra". (Collotti et alii, Fascismo e politica di
potenza, La Nuova Italia, Milano, p. 380).
Post by ***@alice.itGli interessava costruire delle linee sociali stabili, se non
invalicabili (Gentile era siciliano e Croce ...centro-meridionale)
almeno rigide, nell'idea che la stabilità equivalesse a maggiore
solidità. L'esito antisemita italiano fu solo uno sviluppo coerente di
una visione gerarchica della società che avrebbe comunque funzionato: a
rigore le leggi antisemite avrebbero anche potuto non esserci e
nondimeno il fascismo sarebbe stato razzista.
Il fascismo ebbe sempre un (anzi: più di uno. Raspanti ne individua tre)
cote razzista, su questo nessun dubbio.
Post by ***@alice.itEviterei, però, di ampliare troppo il termine razzismo. Non ogni forma
di campanilismo e grettezza localistica è razzismo. L'odio contro i
meridionali immigrati non aveva necessariamente, tanto per fare un
esempio, un carattere razziale. Poteva essere un odio di classe verso il
povero invadente (si odiavano anche i friulani!), lo sporco, il diverso.
[cut]
Certamente il razzismo si distingue dalla xeonofobia, ma non è che una
escluda l'altro. Naturalmente dipende che cosa si intende per razzismo:
in senso ristretto è la scienza della razza (e come tale è oggi
defunto); in senso lato mi pare buona la definizione di
Burdieu, che parla di "oggettivazione dei caratteri", non visti nel loro
formarsi relazionale. Naturalmente tra le due definizione esiste un
rapporto di genere a specie e i confini della specie hanno un alone di
indeterminatezza (es.: la volgarizzazione giornalistica di una teoria
razzista, dove la collochiamo?). Sono invece in disaccordo se vuoi dire
che l'antimeridionalismo nasce come xeonofobia: direi proprio di no, non
foss'altro perché viene alla luce assai prima (e assai dopo)
dell'immigrazione di massa dal sud. Con ciò naturalmente non sto negando
che alla xenofobia (ma anche al razzismo) non si accompagnino problemi
concreti, per esempio di convinvenza difficile, di concorrenza al
ribasso nel mercato del lavoro, la mafia, eccetera. Ma il discorso
dell'articolo mi pare un altro. Si sostiene cioè, secondo me
giustamente, che l'origine del discorso antimeridionalista del razzismo
italiano (che, legata agli andamenti cronologici del processo di
unificazione italiana ed età dell'imperialismo di cui accennavo sopra,
costituisce un elemento caratterizzante una cospicua fetta del processo
culturale di nation building) ne determina un'intonazione insicura, di
cui il razzismo stesso non riesce a venire completamente a capo, che ne
rende sfuggente la diagnosi, più deboli gli anticorpi e ricorrente
l'appetibilità di fronte a problemi politici, sociali, economici.
Saluti,
Arturo